Le diverse modalità di concezione del lavoro

Le diverse modalità di concezione del lavoro

Esistono diversi modi di concepire il lavoro.
L’idea che forse va ancora per la maggiore è quella che considera il lavoro come una sorta di condanna, come obbligo al quale non ci si può sottrarre.
In questa concezione il lavoro è esclusivamente fatica, peso e disagio.
Con tale presupposto, chi cerca un impiego si domanda come trovare qualcuno disposto a fornire una retribuzione, come trovare uno stipendio che consenta di sopravvivere.
Una volta trovato un posto di lavoro, si vive nella speranza dell’arrivo della chiusura giornaliera dell’azienda, in quanto la prestazione professionale è intesa come strumentale (percezione di uno stipendio) per la propria realizzazione che avviene fuori dall’ambiente di lavoro.
E’ questa la cultura delle imprecazioni del lunedì mattina e dell’urlo di gioia del venerdì pomeriggio, che intende il lavoro come sacrificio e sudore.
A chi giova questo stile di pensiero?
L’idea del lavoro come obbligo al quale non ci si può sottrarre (per accaparrarsi lo stipendio) non reca beneficio al lavoratore il quale, probabilmente annoiandosi sul lavoro (perché distante dai propri interessi), non è sollecitato all’aggiornamento e alla creatività, elementi indispensabili per conservare capacità agli occhi del datore. Sicuramente, tale tipologia di atteggiamento non porta valore all’impresa: un collaboratore impegnato ad eseguire esclusivamente i compiti impartiti (alla meno peggio) non apporta novità, nuove idee su come fare le cose.

“Il lavoro, questa meravigliosa attività umana, è una cosa diversa per ciascuno di noi.
Per alcuni è un semplice mezzo per sbarcare il lunario, per avere un salario e uno stipendio.
Il grado di adesione, di identità, di motivazione al lavoro sarà direttamente proporzionale alla quantità di danaro percepita in cambio di una prestazione e di un certo tempo dedicato.
Per altri, il lavoro è sofferenza, sacrificio, obbligo, necessità.
E’ una costrizione alla quale, purtroppo, siamo sottomessi. Il lavoro è un tunnel del quale non si vede l’uscita, che arriverà solo con la pensione.
Per altri ancora, il lavoro è una leva per rivoluzionare il mondo, per sovvertire l’ordine delle cose, per cambiare i rapporti sociali tra classi e gruppi, per combattere una battaglia tra ricchezza e povertà.
La motivazione ideologica è qui prevalente.
Vi sono persone, poi, e sono la maggioranza, per le quali il lavoro è un diritto, sancito, tra l’altro, dall’articolo uno della Costituzione.
Un diritto che spetta, che dovrà essere soddisfatto da qualcuno. ‘Ho studiato’, dicono alcuni.
‘E ora mi dovete dare un lavoro’.
E’ una esternalizzazione del diritto, che rischia di produrre passività, reclamo, rivendicazione.
Ed è espressione di una certa cultura dominante del lavoro, secondo la quale c’è sempre qualcuno (l’impresa, la scuola, la società, il parroco, il potente, lo Stato, il comune) che deve risolvere il problema.
Infine, c’è chi ritiene, ed è una cultura crescente, che il lavoro è sì un diritto, ma è soprattutto un progetto, un’opportunità, che permette di realizzare sogni e bisogni, desideri, aspettative, progetti, personali e professionali.
E’ questa una cultura più attiva della precedente, che denota ricerca, dinamismo, motivazione, voglia di misurarsi anziché di aspettare.”
Esiste una concezione del lavoro diversa da quella che lo intende come disgrazia necessaria per sopravvivere, cioè esiste un’idea di lavoro come trasformazione della realtà per rispondere ad un bisogno (scelto tra i tanti perché più in linea con le proprie motivazioni, aspettative, coi propri desideri).
Questa concezione del lavoro propone di invertire il processo mentale che si effettua solitamente.
Abitualmente la ricerca di un lavoro prende avvio dall’indagine sulle possibilità occupazionali che offre il mercato.
Il primo interrogativo che sorge è quello di dove poter andare a reperire un posto di lavoro, qualunque esso sia, purché possa offrire, come contropartita, una remunerazione.
Questo modo di procedere, tuttavia, non porta a fare i conti coi propri interessi, ma ad adattarsi a quello che c’è, a quello che l’economia offre.
Il modello di ricerca del lavoro che si propone, invece, si articola nel seguente iter:

  • comprensione della realtà;
  • comprensione del proprio desiderio;
  • trasformazione della realtà.

Le conseguenze di questo modello sono riassumibili come segue:

  • Il significato come motore di energia e motivazione: la persona che intende il proprio lavoro come apporto all’adempimento di un bisogno intravede nella propria attività un significato.
    Un conto è investire energie e tempo in un compito che non si avverte come utile, un altro è sforzarsi (mentalmente e fisicamente) per un lavoro che si considera strumentale per la soluzione di un problema.
    La vera fatica non sta negli sforzi intrapresi, ma nella mancanza di significato.
    Le attività che invece si avvertono pregne di significato producono sempre nuove energie e motivazioni.
  • Amalgama di gioco, studio, lavoro e riposo: se il lavoro risponde al proprio desiderio di contribuire al cambiamento, allora questo sollecita al pensiero creativo.
    Il pensiero creativo non va a letto! La persona che sa di svolgere un lavoro significativo per sé e per la comunità è in perenne tensione rivolta al miglioramento.
    Quindi, la persona, non solo sarà in produttiva contemplazione sul lavoro, ma anche nel tempo di non lavoro.
    In sostanza sembra avvertirsi una sfumatura dei confini tra gioco, studio, lavoro e riposo .
    “Un tempo la vita era divisa in periodi ben distinti.
     Si potevano individuare quattro fasi temporali: gioco, studio, lavoro, pensione.
    Oggi questa divisione non esiste più.
    Le quattro fasi si intrecciano e si intersecano temporalmente, senza soluzione di continuità.
    Vediamo alcuni esempi.
    Occorre studiare tutta la vita.
    E’ l’era del compito a casa, anche per chi ha finito le scuole ormai da lungo tempo! Non è più sufficiente l’occasionale corso di aggiornamento predisposto dall’azienda (5 o 10 giorni se va bene), o sfogliare qualche rivista una volta al mese, e nemmeno darsi degli obiettivi di aumento delle competenze più audaci: non saranno sufficienti! Il programma personale di apprendimento deve prevedere una revisione totale delle competenze ogni 4 o 6 anni.
    Occorre pensare a sé come ad una macchina con una vita utile di 4 o 6 anni.
    Se non investi almeno l’ammortamento annuo in un’attività di ‘ri-formazione’, non rinnovi il tuo capitale.
    La domanda e l’offerta cambiano continuamente e quindi ha poco senso domandarsi come posso trovare un posto di lavoro offrendo dei saperi più o meno consolidati, ad esempio quello che si è appreso all’università.
    E’ necessario mettere in preventivo che l’unico modo per ottenere una stabilità nel lavoro è quello di rendermi conto che quello che ho imparato anche solo 4/5 anni fa è molte volte inutilizzabile.
    Quello che era utile ieri non è scontato lo sia ancora oggi.
    Così come lo studio, anche il gioco ed il divertimento diventano importanti in tutte le fasi, soprattutto in quelle della maturità, periodo nel quale è fondamentale crearsi degli interessi poiché la pensione arriva, molto spesso, quando si è ancora nel pieno del vigore fisico e mentale.
    Bisogna imparare a divertirsi anche nel lavoro altrimenti sarà difficile essere creativi e sviluppare l’immaginazione, due elementi fondamentali nel lavoro del prossimo futuro.”

Autore: Gianni Solfrini

Responsabile Italia Divisione Recruiting e Head Hunting